LA CORTE MILITARE DI APPELLO

    Ha   pronunciato  pubblica  udienza  la  seguente  ordinanza  nel
procedimento  penale  a carico di: Arone Luciano Massimiliano, nato a
Cassano  allo Ionio (Cosenza) il 13 dicembre 1974, domiciliato presso
il difensore ai sensi dell'art. 159 c.p.p. -- Capitaneria di Porto di
Taranto  --  recluta  --  difeso  dall'avv. Bruno Pasqua, del Foro di
Bari,   con  studio  in  Bari,  via  M.  Galliani  n. 1/A,  difensore
d'ufficio.

                      F a t t o e d i r i t t o
    Con sentenza n. 15 in data 16 febbraio 2005 il Tribunale militare
di  Bari  assolveva Arone Luciano dal reato di mancanza alla chiamata
aggravata  (artt. 99  cpv.  nn. 1  e  2  c.p., 151 comma 1 e 154 n. 1
c.p.m.p.) perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato.
    Avverso  la  predetta  decisione  proponeva  appello  il pubblico
ministero.
    All'odierna  udienza  dibattimentale le parti hanno concordemente
richiesto  che  il  gravame, ai sensi di quanto disposto dall'art. 10
della  legge  20  febbraio 2006, n. 46, sia immediatamente dichiarato
inammissibile.
    La  Corte,  tuttavia,  ritiene  di  dover  sollevare d'ufficio la
questione di legittimita' costituzionale degli artt. 593 c.p.p., come
sostituito  dall'art. 1  della  legge  20 febbraio 2006, n. 46, nella
parte  in cui non prevede per il p.m. la possibilita' di appellare le
sentenze  di  proscioglimento  al di fuori dei casi di cui al comma 2
dello  stesso  art. 593  c.p.p.,  nonche'  dell'art. 10, commi 1 e 2,
della  legge  suindicata,  per  contrasto  con gli artt. 3, 111 e 112
della Costituzione.
    Preliminarmente  va  osservato  che  nella  specie  si  deve fare
applicazione   del   disposto  del  menzionato  art. 10  della  legge
n. 46/2006,  il quale, definendo il regime transitorio, stabilisce al
comma  2 che si debba pronunciare ordinanza di inammissibilita' delle
impugnazioni  proposte  prima  dell'entrata  in  vigore  della  nuova
normativa avverso sentenze di proscioglimento.
    In  ragione di cio' la questione circa la costituzionalita' della
nuova   disposizione  appare  certamente  rilevante,  dovendo  questo
giudice   fare   concreta  applicazione  della  stessa  nel  presente
processo,  di  fronte  ad  una  impugnazione  che, alla stregua della
precedente normativa, sarebbe stata pacificamente ammissibile.
    A  tal  riguardo  va  sottolineato che la proposizione ex officio
della  questione  trova  la sua origine anche nelle vicende che hanno
connotato  l'iter di approvazione della legge medesima, che ha visto,
come e' noto, il rinvio del testo alle Camere da parte del Presidente
della  Repubblica  motivato  dalla  rilevazione di plurimi profili di
manifesto  contrasto  con la Carta costituzionale. Successivamente il
testo  ha  subito  delle  modifiche  che,  ad avviso della Corte, non
appaiono   tali   da  far  ritenere  del  tutto  fugati  i  dubbi  di
costituzionalita' gia' prospettati.
    Ad  avviso  della  Corte la nuova norma sui limiti oggettivi alla
impugnabiita'  delle  sentenze di proscioglimento appare in contrasto
con piu' disposizioni della Carta costituzionale.
    In  primo  luogo  i  rilievi  si  incentrano sulla violazione del
principio  di cui al comma 1 dell'art. 3 della Costituzione, relativo
al principio di eguaglianza, che costituisce parametro di riferimento
indubbiamente essenziale ai fini della valutazione della legittimita'
costituzionale  del  suddetto art. 593 c.p.p., sotto il profilo della
ragionevolezza,     che,     secondo    consolidata    giurisprudenza
costituzionale,  costituisce uno dei limiti alla discrezionalita' del
legislatore.
    Nel caso di specie tale ragionevolezza risulta compromessa per la
determinante   ragione  che  si  impedisce  al  rappresentante  della
pubblica  accusa  di  dare,  nell'ambito  della sequenza processuale,
concreta  attuazione  al  principio  dell'obbligatorieta' dell'azione
penale,  in  tal  modo  non consentendogli di fornire il suo doveroso
contributo all'accertamento dei reati.
    In  proposito non si puo' fare a meno di notare, peraltro, che il
sistema processuale risultante dalla novella determina la paradossale
situazione  per  la  quale  da un lato si impone al p.m. di ricercare
prove  anche  a  favore dell'imputato, dall'altro gli si impedisce di
concretizzare  la  pretesa  punitiva statuale attraverso l'appello di
merito su pronunce assolutorie.
    Ne',  ad  avviso  della Corte, il permanere della possibilita' di
appellare tali tipi di pronunce, in presenza di nuova prova decisiva,
fuga i dubbi di costituzionalita' sotto il profilo che ci occupa, sia
in  considerazione della residualita' dell'ipotesi, sia, soprattutto,
perche'  non  consente  un  ulteriore vaglio nel merito del compendio
probatorio  gia'  acquisito, ove il p.m. lo ritenga non adeguatamente
valutato  dal primo giudice. Invero, se scopo essenziale del processo
e' l'accertamento della verita', non e' assolutamente ragionevole che
cio'  sia  perseguito  soltanto su istanza e nella prospettiva di una
delle parti.
    Infine,  il  nuovo  sistema  appare ulteriormente irragionevole e
sbilanciato  in  quanto,  pur  doverosamente conservando per la parte
civile   la   possibilita'   di   appello   avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,   nel  contempo  la  priva  della  possibilita'  del
sostegno   della   parte   pubblica   nell'accertamento  dei  profili
civilistici  di  responsabilita' che, comunque, originano da condotte
penalmente rilevanti.
    Ulteriore aspetto e' quello afferente al contrasto con il comma 2
dell'art. 111  (introdotto  ex  art. 1  della legge cost. 23 novembre
1999,  n. 2), che stabilisce il principio della necessaria condizione
di  parita'  delle  parti  nel  contraddittorio  processuale  e della
ragionevole durata del processo.
    Sotto  il  primo  profilo la garanzia della parita' di condizioni
non  puo' non riguardare anche gli strumenti di impulso funzionali al
raggiungimento  degli  scopi che un sistema processuale adeguatamente
informato  ai  principi  costituzionali  deve  garantire, che, per la
parte  pubblica,  sono  quelli dell'attuazione della pretesa punitiva
dello  Stato  a  tutela  dei  primari  interessi della collettivita'.
Invero,  il  p.m.  ha  ora  a  disposizione soltanto lo strumento del
ricorso  per cassazione, che, per sua natura e nonostante i marginali
correttivi  introdotti  con  la modifica dell'art. 606 c.p.p. comma 1
lett.  e), non appare comunque idoneo a garantire il completo riesame
nel  merito delle risultanze processuali. Cio' in quanto gli consente
soltanto  di dedurre vizi del provvedimento circoscritti e tassativi,
impedendo  il vaglio della totalita' delle ragioni che sono alla base
della sentenza di proscioglimento.
    Occorre considerare, poi, i negativi effetti del nuovo regime sui
tempi   di  definizione  dei  processi,  che  palesano  un  manifesto
contrasto  con  il  dettato  dell'art. 111  Cost.  in  relazione alla
ragionevolezza  della  loro durata. Infatti, la natura esclusivamente
rescindente   del   giudizio  di  cassazione  comporta,  in  caso  di
accoglimento del ricorso, la inevitabile regressione di fase al primo
giudice,  con  un evidente e significativo allungamento dei tempi del
processo, rispetto al previgente sistema che consentiva una immediata
decisione nel merito all'esito del proposto gravame.
    Ne  deriva,  di  conseguenza,  il  dubbio sulla costituzionalita'
della  nuova  disciplina, dato che, come posto in rilievo dalla Corte
costituzionale,  compromettono  il principio della ragionevole durata
del processo «... le norme procedurali che comportino una dilatazione
dei  tempi  del processo non sorrette da alcuna logica esistenza, non
essendo  in  altro modo definibile la durata ragionevole del processo
se  non  in  funzione  della  ragionevolezza degli adempimenti che ne
scandiscono  il  corso e ne determinano i tempi» (sentenza n. 148 del
4-12 aprile 2005).
    Infine,    ritiene    la    Corte   che   sussistano   dubbi   di
costituzionalita'   della   normativa   di  cui  trattasi  anche  con
riferimento  al  principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale di
cui all'art. 112 della Costituzione.
    Non puo' negarsi, infatti, che il potere di impugnazione del p.m.
costituisca una delle espressioni di tale principio, sicche' non puo'
ammettersi  che  la  normativa  ordinaria  vanifichi  il  complessivo
assolvimento   delle   funzioni   di  accusa  (Sentenze  Corte  cost.
n. 177/1971 e 98/1994).
    Da ultimo va evidenziata una irragionevolezza interna della nuova
disciplina,  con  riferimento  al regime transitorio. Infatti, non si
puo'    non    sottolineare    che    l'immediata   declaratoria   di
inammissibilita'  dell'impugnazione  anche  nei giudizi di appello in
corso   imposta   dall'art. 10   della   legge  n. 46/2006  determina
un'ingiustificata   disparita'  di  trattamento  con  riferimento  ai
processi  nei  quali  il  p.m. abbia chiesto (e, magari gia' ottenuto
durante  il  giudizio  di appello non concluso) l'ammissione di nuove
prove  decisive,  circostanza  che nel nuovo assetto consentirebbe di
coltivare    l'impugnazione    di    merito   avverso   sentenze   di
proscioglimento.